Diritto

Valida la clausola statutaria che fissa la sede del lodo arbitrale all’estero purchè gli arbitri siano nominati da un terzo


Con sentenza del 4 aprile 2025, N. 8911, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha deciso per la validità della clausola compromissoria contenuta nello statuto di una s.p.a. avente sede legale in Italia, con cui la soluzione delle liti tra società, soci e amministratori veniva devoluta ad un arbitrato estero, nel caso di specie, in Svizzera.

Conseguenza di tale assunto è che il lodo straniero può essere recepito certamente dalla giurisdizione nazionale in forza di delibazione e, quindi, mediante la speciale procedura di cui agli artt. 839 e ss. cod. proc. civ. che richiama la Convenzione di New York del 10 giugno 1958.

La questione posta innanzi ai giudici della Cassazione verte, dunque, su un tema complesso, quello dell’arbitrato societario statutario con sede estera; questione affrontata dalla dottrina con certuni orientamenti che la stessa Cassazione ripercorre in sentenza, ma trattata per la prima volta in sede di legittimità (come, peraltro, precisato dagli ermellini), nonostante, come sottolineano i giudici, in un mercato globalizzato e interconnesso, non siano infrequenti situazioni in cui le aziende, mediante l’adozione di clausole compromissorie, fissino la sede arbitrale in uno Stato diverso da quello in cui hanno sede.

Nel caso affrontato, il ricorrente impugnava la decisione dei giudici d’appello, i quali avevano respinto l’opposizione al riconoscimento del lodo straniero benché, a suo dire, reso sulla base di una convenzione invalida, in quanto, fissando la sede dell'arbitrato all'estero, avrebbe precluso la applicabilità della integrale disciplina italiana dell'arbitrato societario, dettata dagli artt. 34 - 36 del d.lgs. n. 5/2003; applicabilità integrale, secondo il ricorrente, invece "necessaria" perché costituirebbe requisito di validità della clausola, da valutarsi secondo la legge italiana, altresì tenendosi conto che l'applicazione della legge processuale dell'ordinamento svizzero non ammette il rispetto della normativa speciale italiana in materia di arbitrato societario "statutario", dunque, a parere del ricorrente la questione si sarebbe dovuta risolvere con la conseguente nullità della clausola compromissoria e il diniego di riconoscimento del lodo.

Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha evidenziato che il modello unitario imposto dalla legge italiana in materia riguarda, non solo l’arbitrato societario rituale domestico, ma anche l'arbitrato societario statutario estero, in termini diversi che permettono di concludere che una clausola compromissoria, inserita nello statuto di una società italiana, può ben devolvere le liti sociali ad un arbitrato (nelle specie rituale) avente sede in uno Stato diverso, senza incontrare impedimenti di sorta.

E questo perché, spiega la Corte di legittimità, nessuna disposizione, invero, tra quelle di cui agli artt. 34-36 del d.lgs. n. 5 del 2003 (abrogati dal d.lgs. n. 149 del 2022, ma applicabili ratione temporis al caso narrato), contiene previsioni che riguardano la sede dell'arbitrato (altrettanto, per la verità, è a dirsi anche per gli articoli 838-ter ed 838-quater cod. proc. civ., introdotti dal d.lgs. n. 149 del 2022 e di tenore essenzialmente analogo ai suddetti abrogati articoli del d.lgs. n. 5 del 2003). 

Del resto, non esistono norme altre che impongano di fissare la sede dell'arbitrato in Italia; l'art. 816-bis cod. proc. civ., introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2006, stabilisce infatti che le parti possono individuare nella convenzione arbitrale, o con atto scritto separato anteriore all'inizio del giudizio arbitrale, le norme che gli arbitri devono osservare nel procedimento e che, in mancanza di tale determinazione, gli arbitri regolano il procedimento nel modo che ritengono opportuno; tale disposizione consente di desumere che le parti possono scegliere qualsiasi regolamento arbitrale, incluso uno con sede all'estero, confermando, così, che le stesse possono determinare liberamente le regole e la sede dell'arbitrato. 

La norma riferimento deve ricercarsi nell'art. 4, comma 2, della legge n. 218 del 1995, che prevede che la giurisdizione italiana possa essere convenzionalmente derogata in favore di un arbitro estero, se la deroga è provata per iscritto e la causa verte su diritti disponibili.

Neppure vi sono ragioni per ritenere che l'appena richiamata disposizione soffra una deroga in materia societaria. 

Se è vero, infatti, che la rubrica dell'art. 35 del d.lgs. n. 5/2003 denomina le norme procedurali che regolano l'arbitrato societario come "disciplina inderogabile del procedimento arbitrale", è altrettanto vero che siffatta disciplina è riferita all'arbitrato societario domestico, ma nulla dice in relazione all'ipotesi in cui la sede dell'arbitrato sia posta all'estero, con collegamento quindi dell'arbitrato ad un diverso ordinamento giuridico.

Pertanto, la Cassazione condivide quell'opinione dottrinaria secondo cui in tali circostanze, si viene a creare una situazione "del tutto analoga a quella che si verifica con riferimento all'arbitrato di diritto comune, dove regole pacificamente inderogabili quando l'arbitrato ha sede in Italia vengono disapplicate dalla scelta di una sede estera per l'arbitrato, collegando così il procedimento a un altro ordinamento giuridico, senza che vi siano in proposito restrizioni diverse e ulteriori rispetto a quelle che impedirebbero il riconoscimento del lodo qualora si voglia ottenere il risultato della sua circolazione". 

Anche l'art. 829 cod. proc. civ., come l'art. 35 d.lgs. n. 5/2003, è norma inderogabile di diritto interno con cui ogni lodo nazionale rituale ad hoc si deve confrontare, eppure, quando la sede dell'arbitrato viene posta all'estero, nessuno dubita che questa norma ceda il passo al sistema di impugnazione dell'ordinamento cui le parti o gli arbitri hanno collegato l'arbitrato, ponendo la sua sede fuori dal territorio nazionale.

Nulla vieta, perciò, che un arbitrato societario, che deriva da clausola compromissoria statutaria abbia la propria sede all'estero, così come nulla ostacola che soggetti domiciliati in Italia scelgano, per la definizione delle loro liti, un arbitrato con sede in territorio estero. 

La regola applicabile è, in entrambi i casi, quella stabilita dall'art. 4, comma 2, della legge n. 218/1995, che non è derogata in materia di arbitrato societario e consente quindi, anche in quest'ambito, la scelta di un arbitrato estero.

La disciplina contenuta negli articoli 35 e 36 del decreto societario, seppure fortemente innovativa soprattutto al momento della sua entrata in vigore, non contiene, ad avviso del Collegio, norme di ordine pubblico, neppure in punto di impugnazione, posto che lo stesso sistema nazionale è andato con la riforma del 2006 fortemente voltando verso la regola della restrizione dell'impugnazione legata alla violazione di norme di diritto, così incoraggiando la stabilità del lodo.

Si deve perciò concludere che, mentre la regola dell'art. 34 d. Igs. n. 5/2003 deve ritenersi norma imperativa che disciplina l'unica forma possibile di arbitrato societario, laddove impone, a pena di nullità della convenzione di arbitrato, che l'intero organo arbitrale sia nominato da un soggetto terzo estraneo alla società, una volta rispettata la forma necessaria della convenzione di arbitrato, le disposizioni processuali contenute nelle altre norme del decreto societario, invece, possono essere derogate attraverso la scelta di una lex arbitri diversa, purché rispettosa di quei canoni fondamentali, recepiti, in particolare, dalla Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (recepita in Italia dalla regge zione 04/04/2025 62 del 1968), che, a livello sovranazionale, disciplinano il riconoscimento dei lodi arbitrali.